venerdì 21 agosto 2015

Sicilian mode: l'acqua mi vagna e u vento m'asciuga.

Tutto quello che ho guadagnato in vita mia nelle relazioni sociali è la schiena piena di coltelli che un fachiro scansìate, levate proprio. Sono comunque in piedi, malconcia magari, ma sopravvissuta. Non è eroico, è il minimo, è pelle dura e deformata. Tante volte mi hanno ferita, eppure ogni volta azzero i conti e ricomincio, altrove con altre persone ma non perdo coraggio: ci resto male per un tempo indefinito a seconda dei casi, incasso ed elaboro, e poi vado avanti, è solo un altro inizio. Le cose finiscono, si sa.
Con tutte le volte che le "cose" sono andate a male, e in così tanti modi diversi, io sono sempre la cogliona che ci casca. Vengo ferita e non mostro niente, neanche fastidio, recito così bene la parte della dura che nessuno ha mai scoperto la mia copertura. Poco dopo la ferita si cosparge di giustificazioni, tutte le possibili spiegazioni per il comportamento altrui (non ha riflettuto, sapeva come avrei reagito, si ricorda di quando, ect) e questo è il primo passo verso la fine: mi allontano, un po' per sfida, un po' per vedere se quella distanza aumenta o viene recuperata. Beh, nel 98% dei miei casi la distanza aumenta, non importa se l'altra parte non ha percepito il mio disagio, la mia ferita, il mio patetico istinto a indietreggiare per mettere alla prova le azioni altrui. Quindi a questo punto è la fine.
Basta. Chiuso. Incassare ed elaborare. Iniziare di nuovo.
Certi circoli viziosi proprio non riesco a spezzarli. Come quando faccio un progetto, ci metto tutta me stessa, magari riesco anche a metterlo in pratica e a ottenere tutto o qualcosa (che già è meglio di niente, no?) però poi sento la sua voce. Sento la voce di mia madre dentro la testa che dice Sì, però...
Sì, però... quante volte l'ho sentita dirmelo.
"Mamma, ho preso sette nel compito in classe di matematica! Mica male dopo tanti quattro"
"Sì, però se studiavi di più prendevi otto"

"Mamma, non sono arrivata in ritardo al lavoro stamattina"
"Sì, però se ti partivi prima non avresti avuto questo problema"

"Caspita, ho fatto amicizia oggi! Potrebbe essere un miracolo"
"Sì, però potevi trovarti un fidanzato"

E questo per i miei risultati positivi, per i negativi non nascondo di meritare almeno biasimo. Le prediche no, quelle mi stanno sul cazzo.
Per questo mi sento l'avvocato delle cause perse: non faccio mai le cose giuste, non faccio mai abbastanza, mi trincero nelle mie decisioni per pessime che siano, do seconde chance a chi nemmeno sa di doverne avere una. Ecco, quest'ultima inizia a pesarmi.
Perché cazzo devo essere sempre io quella comprensiva e che giustifica? Al diavolo, ora me ne sbatto i coglioni! Farò quel cazzo che mi pare, continuerò a imprecare ogni volta che mi aggrada, riprenderò a vestirmi barbone-style, vaffanculo i vestiti da signorina, solo quello che voglio!

Esempio di barbone-style, look giorno sobrio.

E chi non è d'accordo HASTA LA VISTA!
Maya sul piede di guerra, Se la gente mi infastidisce si litiga, l'altra guancia me l'hanno scartavetrata.
L'acqua mi vagna e u vento m'asciuga, il saggio proverbio siciliano riguardo il lasciarsi scorrere le cose addosso senza lasciarsi toccare. L'acqua mi bagna e il vento mi asciuga, sono qui e niente mi tocca, niente mi smuove, resto calma, come le cose avvengono così passano.


* * * * * * *
 PS: avevo dimenticato di aggiungere una canzone, la inserisco adesso.

"La verità è riprovevole poiché fa la gioia del colpevole ed io che la volevo incantevole come pioggia cado dalle nuvole"

giovedì 13 agosto 2015

La veggente Maya colpisce ancora.

Ho già dichiarato che a volte sembro una veggente, perché cose che penso poi accadono davvero, senza che io debba fare una mossa.
Stavolta è successo che, del tutto casualmente, una mattina ho pensato ad una persona che non vedevo da un anno e con cui non chiacchiero da almeno due. Parlo di Mr. X, il tizio per cui avevo una cotta stratosferica ma con cui ahimè non ho quagghiato (trad. dal siciliano: concretizzare, instaurare una relazione amorosa), il tizio di cui ho parlato così tanto che gli ho affibbiato un tag qui sul mio blog.
Una mattina di poco tempo fa, dicevo, pensavo a lui. Al sorriso che mi aveva fatta innamorare, ai film che guardavamo insieme, a quanto stavo bene quando mi abbracciava, ai silenzi imbarazzati nelle telefonate, a quanto fosse strano che di presenza parlavamo sempre in modo continuo e piacevole mentre per messaggi avevo il vuoto nel cervello e non sapevo mai cosa dire, alle risposte brevi che dava alle parole che spremevo via da me stessa, a quanto era bello passare il tempo con lui (anche e soprattutto oziare).
Non pensavo a lui da un sacco di tempo, davvero, eppure ho avuto la stessa sensazione che avevo un anno e mezzo fa: qualcosa che non so definire, come un buco alla bocca dello stomaco, un po' malinconia, un po' tristezza, un po' entrambe o forse nessuna, chissà.
Comunque, di punto in bianco qualche ora dopo, eccolo nella mia casella messaggi di facebook, dopo due anni o poco più. Ci scambiamo pochi convenevoli, poi mi ha chiesto di vederci, se potevo organizzare un'uscita di gruppo. E io, appena ho visto il suo nome, lui che scriveva il mio nome in una abbreviazione che odio eppure detto da lui non mi infastidiva, non lo ha mai fatto, ecco, io mi sono messa a sorridere quanto più fisicamente possibile, uno scoppio di adrenalina, una corrente elettrica sui polpastrelli.




Abbiamo parlato un po' nei minuti successivi all'incarico di organizzatrice che ho accettato (un'asociale che organizza un'uscita di gruppo, pare una barzelletta!), abbiamo parlato molto anche durante la cena e dopo, in giro con gli altri per la città. Si rideva, si scherzava e sembrava ancora di stare nel posto dove quel gruppo è nato, anche se qualcuno mancava. Beh sì, è stata una bella serata davvero. Il problema è che ne ho già nostalgia e che il mio cuore traditore ora desidera qualcosa che non esiste e che non possiamo avere. So bene che non ci potrà mai essere niente di serio tra di noi.
Sono una cinica veggente, non una strega.


Mark a Peyton: Sei troppo giovane per non credere che tutto andrà bene.

lunedì 3 agosto 2015

2015 Reading Challenge: luglio.

Grazie al cielo scrivo su Blogger e non mi filmo su youtube, altrimenti starei ciarlando come Ornella Vanoni, che ha la pelle talmente tirata che non parla: mugugna in modo incomprensibile. Ma non è della cantante che volevo parlare, quella cattiveria mi è uscita così. Colpa del dente devitalizzato che duole e dell'afa che destabilizza.


Questo mese ho letto due libri, grazie ai quali ho segnato due punti. Con Tutto ciò che muore di John Connolly ho segnato il punto 15: primo libro di un autore famoso. Questo è un thriller poliziesco bello da paura e il suo modo di scrivere e raccontare è intrigante, avvincente. Ci sono tanti elementi, tanti personaggi, tante storie, tanti misteri, tanti fantasmi, tante emozioni diverse e non si sa mai quale filo tirerà. Una storia che in realtà ne contiene molte altre.
L'ex poliziotto Charlie Parker, detto Bird, molti mesi dopo il brutale omicidio di sua moglie e della sua figlioletta (scuoiate e lasciate in posa, la bimba di traverso sulle gambe della madre come nella Pietà), riesce faticosamente a smettere di bere ma non desiste dal cercare ancora l'assassino, a qualunque costo; in mancanza di piste, occupa il suo tempo in altre "investigazioni", tra cui il rapimento di una ragazza la cui sorella era stata rapita e uccisa anni prima da una coppia di killer locali e la ricerca di criminali fuggiti alla libertà vigilata (uno di questi, Fat Ollie, viene ucciso in sua presenza dalla mafia). Ben presto si ritrova invischiato in altre ricerche, in un passato che non gli appartiene ma di cui si fa carico: vuole espiare parte del suo senso di colpa trovando viva la ragazza e far arrestare i colpevoli degli altri omicidi. Non sarà facile: mentre la cerca, si imbatte in una serie di cadaveri, in particolar modo di bambini seviziati e uccisi; a tutto ciò si aggiungono varie famiglie di mafiosi, una santona creola di New Orleans con le visioni (una riguarda una ragazza morta che si trova in fondo ad un bayou, non è mai stata trovata e di notte la sente piangere; attira Bird perché riporta le stesse ferite di sua moglie, particolari non diffusi alla stampa) e altri omicidi che prevedono la messa in posa dei cadaveri che tengono le redini della propria stessa pelle scuoiata, privati di occhi e della pelle sulla faccia (quello che in gergo si definisce "trofeo" *), i quali sono tratti da antiche immagini mediche o artistiche.
Connolly riesce a dar vita a dei collegamenti tra fatti che, in apparenza, non hanno niente in comune, eppure si arriva al punto della scoperta e tutto sembra avere una logica conseguenzialità.

La motivazione psicologica di base del serial killer non mi è chiara, non spiega quali fossero i fattori che hanno dato inizio alla pulsione, alla fantasia omicida, ma solo il fattore scatenante (ossia l'avvenimento che lo ha spinto a tradurre la fantasia in azione; questo lo spiega bene ma non posso aggiungere altro, altrimenti potrei dare un suggerimento troppo grande).
Il senso delle pose è creare un memento, cioè creare qualcosa che ricordi al genere umano la propria caducità, la mortalità, la futilità della vita stessa e delle sue caratteristiche (amore, famiglia, amicizia, orgoglio, ambizione), tutto ciò che conta è la sofferenza e la morte di tutto ciò che muore. Nel finale l'assassino spiega tutto questo a Bird ma lui rigetta totalmente la teoria esistenziale del criminale, nonostante sia ad un passo brevissimo dal diventare uno di quei mementi, insieme a Rachel Wolfe, una psicologa criminale che lo ha aiutato nelle indagini e ad accettare la perdita della moglie andando avanti.

A circa metà del libro ho adocchiato un personaggio, per poi scoprire alla fine che avevo davvero indovinato il killer.
Detto con modestia, se avessi lo stesso intuito nella vita reale sarei meglio di Pippo Baudo ai suoi tempi d'oro.


* Piccola lezione di psicologia criminale, in termini spiccioli: i killer seriali prelevano qualcosa dalle proprie vittime o dalla scena del crimine, possono essere oggetti o parti del corpo e sono chiamati "trofei", si tratta di qualcosa che il killer utilizza per ricordare a se stesso cosa ha fatto e cosa ha provato, per rivivere le sue azioni.


Con il secondo libro ho segnato il punto 17: libro consigliato da un amico. Ho fatto un prestito-scambio con una amica, che mi ha indicato Il trattamento di Mo Hayder come uno dei suoi thriller preferiti. Mi duole ammetterlo, e non so come farò a confessarlo a lei, ma io l'ho detestato. Ho fatto fatica a leggerlo, più volte avrei voluto abbandonarlo, adesso faccio fatica a trovare un commento positivo da fare che non sia questo: sono contenta di averlo finito e di non doverlo rileggere mai, mai più.
Ne ho lette e viste in tv di cose orribili, ma così è troppo: il caso riguarda bambini stuprati e uccisi in condizioni di fortissimo impatto psicologico. Orribile, semplicemente orribile. Oltre al fatto incontestabile che il racconto di per sé è orribile, la narrazione non lo salva neanche. Per me è scritto male. Non ho provato empatia o simpatia per nessun personaggio, sono insulsi, privi di attrattive, alcuni sono stereotipi (come la lesbica coi capelli rasati e zero femminilità nei movimenti e negli atteggiamenti, cosa che mi fa chiedere se l'autrice abbia mai parlato in vita sua con una lesbica); coi vari cambi di argomento e prospettive confonde, con le descrizioni inutili abbonda, quando finalmente sta per accadere qualcosa o sta per dare un indizio blocca la scena per metterci in mezzo un'altra scena del tutto diversa con altri personaggi e quando si ritorna alla svolta non è poi questo gran ché. Non mi è piaciuto neanche il finale. In sostanza, questo libro non mi è piaciuto, non fa per me e sono contenta che me lo hanno prestato così non dovrò neanche rivederlo.

Su queste note amare una conclusione: credo che non leggerò un altro thriller per un po' di tempo. Forse non leggerò proprio. Boh.
Stay tuned!