sabato 23 febbraio 2013

What I hate about

Bonjour!
Dopo la spiacevole esperienza della letteratura francese (a cui darò senz'altro una seconda opportunità, visto che Alexander Dumas mi fa una certa simpatia, ma non in un futuro prossimo recente) ho voluto iniziare questo post proprio in francese. Ieri mattina ho avuto tre brutti presentimenti su altrettanti ragazzi. Mi piace abbastanza, lo ammetto, poter dire "lo avevo detto!", oppure "io l'avevo immaginato/sognato prima!". Il fatto è che mi capita ogni tanto di avere dei presentimenti che dopo alcuni giorni/settimane/ mesi si avverano. Ecco, in questi tre casi spero proprio di sbagliarmi. Non voglio nemmeno esprimerli, sarebbe come tirarsi addosso la sfiga. Sono tre ragazzi diversi, tre caratteri diversi in tre diversi ambienti; non vorrei una relazione con nessuno di loro ma questo non significa che io auguri loro delle grane, tipo quelle che immagino. Se si avverassero i miei sospetti, tanta gente starebbe male, alcune a causa mia. E io non lo voglio, anche se so che in tali casi potrei farci ben poco. Comunque, lascio perdere queste storie per sguazzare un po' nelle cose di cui sono sicura: le cose che odio.



Odio le foto (quelle dove ci sono io soprattutto). Servono a ricordare le cose belle e allegre che ci sono successe (spesso facendoci riflettere sul fatto che nel momento in cui le guardiamo non lo siamo più) e a ricordare persone che non ci sono più. Le ultime sono comunque le peggiori, quelli che ti lasciano dei segni dentro come vecchie cicatrici. Ma basta con le cose serie, passiamo al lato "spensierato".
Non sono per niente fotogenica e ho la fortuna sfacciata di avere un'amica che vive in simbiosi con la sua malefica macchina fotografica. Un incubo. Così spesso applico la tattica del "Guarda là!", nota anche come "Per favore, ti puoi distrarre?". Una volta su tre non funziona, aiutatemi.

Odio telefonare.
Se volete rintracciarmi mandatemi un sms, o al massimo una mail. Ricevere una telefonata mi mette ansia, sia per la mia tendenza a dimenticare certe cose o a distrarmi, sia perché è facile avere delle incomprensioni. E poi sono un disastro, al telefono non mi so regolare; è come se il mio cervello mi dicesse "Senti, io me ne vado", lasciandomi in balia di un pessimo quanto imbarazzante senso dell'umorismo, o frasi del tutto fuori luogo. Per dire, se mai lavorassi in un call center erotico sarei in grado di dare del pervertito al primo cliente.


Insomma, mandatemi un sms, così sto tranquilla che non dimentico niente e soprattutto potrò sempre difendermi mostrando il testo in questione. "Ma io al telefono ti ho detto..." macché, non esiste proprio. Non voglio essere incastrata. Se una persona ha qualcosa da dirmi allora per favore perde un po' di tempo in più per scrivere un sms, che magari impara pure l'italiano. E' un po' più impegnativo per certi cervelli, lo so, ma al solo pensiero di fare una telefonata mi prende l'orticaria. E poi per telefono sono stata mollata due volte. Dalla stessa persona.
Ma comunque, questa è un'altra storia.

Odio la gente che mi chiede "Perché sei depressa?"; non se sono triste (e che cazzo, scusate, impariamo la differenza tra la tristezza e la depressione!) ma proprio perché sono depressa. E 'sti cazzi perché non ce li hai messi? Io non sono depressa, sono semplicemente incazzata, va bene? Se ascolto Apocalypse please, Blackout e Map of the problematique dei Muse non è perché sono depressa.
Se ho letto Delitto e castigo in tre pomeriggi e ho dichiarato che mi è piaciuto molto, che l'ho trovato scorrevole e gradevole, non è perché sono depressa; è perché il signor Dostoevskji ha descritto con la dovuta attenzione e cura il dramma sociale e personale di Raskolnikov (forse fino all'esasperazione, ma ci stava).

Ogni tanto, quando leggo un buon libro mi perdo. Non vedo altro che le lettere nere su uno sfondo bianco. Ormai ho perso l'abitudine di leggere in luoghi pubblici (più che altro perché potrei impazzire se qualcuno avesse l'ardire di disturbarmi e attaccare bottone chiedendomi "Stai leggendo?"; no, cara testa di cavoletto di Bruxelles, sapevo di incontrarti e mi sono attrezzata per evitarti); ma ogni tanto capita ancora che qualcuno venga a interrompere. Tipo Genitrice, che ha la strana quanto snervante abitudine di parlarmi in momenti piuttosto inopportuni, compresa la sosta in bagno e il terribile momento del mattino in cui apro gli occhi e non capisco ancora se sogno o son desta. Poche settimane fa, c'è stata una volta in cui credevo di essere sola nella stanza e leggevo tutta presa un libro (che adesso non ricordo di preciso quale fosse). All'improvviso mi sento fare pat-pat sulla testa.
"Hai capito quello che ti ho detto?" sbuffa Genitrice indispettita.
"Oh mà, se ti dico che mi sono accorta adesso che sei qui, basta come risposta?"
Da qui a "tu non mi ascolti mai", seguita da una lista interminabile di recriminazioni, il passo è un niente.
Saluto con una canzone che ho fissa in testa ogni mattina, da una settimana.

sabato 16 febbraio 2013

La colpa è della fatalità!

Pare proprio che per terminare la lettura di questo libro dovessi prendermi la febbre; di certo non posso che lanciarmi nelle mie amare conclusioni onde avvertire gente che, come me, si ritrova con l'insano pensiero di leggere questo "classico". Della serie "a volte tornano", con il sottotitolo implicito ed era meglio di no, il mio "angolo libro".
Il libro che ha popolato i miei incubi è Madame Bovary, di Gustave Flaubert.
Ho impiegato la bellezza di tre mesi per leggere un libro che neanche arriva a quattrocento pagine ed è un tempo indecente, se si considera che lessi la trilogia Millennium due volte di seguito in meno di due mesi. L'ultima volta che ci misi così tanto a finire un libro (rigorosamente non scolastico) si trattava di Mitzi, un romanzo di Delly (che manco a caso, sono tutti francesi); ma all'epoca era estate e avevo dodici anni. Sicché.
Che dire di questo romanzo? Le descrizioni dei luoghi, delle persone (da come sono vestiti pezzo per pezzo alle minuziose caratteristiche fisiche, passando per abitudini e carattere), dei pensieri, del tempo, di qualunque cosa vi venga in mente, sono talmente precise e accurate da dare la nausea, non c'è assolutamente nulla lasciato all'immaginazione del lettore. Ogni crepa su ogni muro, ogni acaro su un mobile, ogni piega di un vestito, ogni pianta in qualunque giardino del vicinato... è tutto descritto. Insomma, mi sono sentita una stalker.
Ma andiamo a vedere i due coniugi Bovary, che uno li guarda e pensa "Dio li fa e poi l'accoppia. Oppure li accoppa?". Il signor Carlo Bovary è sostanzialmente un idiota. Mi fa quasi tenerezza (quasi) e presto capirete il perché. Lui è un dottore sempliciotto che avrebbe fatto meglio a fare il contadino in una fattoria isolata da qualunque contatto con la società; è talmente buono e sprovveduto da sconfinare nella pura stupidità. Uno così con chi dovrebbe accoppiarsi? La prima moglie mente sul suo reddito (che in fondo l'aveva sposata perché i genitori lo convinsero che aveva denaro sufficiente) e muore; lui è così buono che, nonostante gli desse il tormento, gli dispiace. E tanto poi si consola subito innamorandosi della figlia di un suo paziente, la bella Emma. All' inizio tanto buona e pudica, la ragazza si crede innamorata, salvo poi capire (e questo praticamente nell'arco di tempo che va dalla cerimonia del matrimonio all'arrivo alla nuova casa, senza passare per il viaggio di nozze) che lei non lo ama affatto, anzi la annoia, le fa pure un certo ribrezzo. Lei sogna i grandi amori e le passioni sfrenate lette nei romanzi, ne sarà ossessionata per tutto il libro e non raggiungerà mai un minimo di soddisfazione, sempre alla ricerca di qualcosa di più grande (niente battute maliziose, vi prego).
Lei, la signora Bovary, è egoista, capricciosa, volubile, manca di sensibilità (persino con la figlia), di empatia e di tatto; quel poveretto la adora, si fa maltrattare e la ama imperturbabile, mentre lei lo indebita (senza la minima, lontana preoccupazione) per spassarsela con l'amante di turno: o Rodolfo, il classico Casanova affascinante, o con il romantico e mite Leone. Ma lei è così rompicoglioni che la mollano tutti. Tranne lui, il marito-zerbino.
Lei è talmente egoista che bisognerebbe inventare una parola per poterla descrivere con la dovuta forza.
L'ho davvero odiata. Ma mi va di fare qualche citazione:

Emma Bovary e il futuro amante Rodolfo:
-Tristi distrazioni, perché non vi si trova la felicità.
-Ma si può trovarla mai?- domandò lei.
-Sì, la si può incontrare, un giorno [...] la si incontra un giorno- ripeté Rodolfo -Un giorno, d'un tratto, e quando meno si sperava. Allora si aprono degli orizzonti, ed è come se una voce gridasse "eccola!". Si sente il bisogno di confidare a quella persona tutta la nostra vita, di darle tutto, di sacrificarle tutto! Non c'è bisogno di spiegarsi, ci si indovina. Ci si è intravisti nei sogni- e così dicendo la guardava -Finalmente, eccolo quel tesoro tanto cercato, eccolo davanti a noi: brilla, scintilla. Pure si dubita ancora, non si osa credere; si resta abbagliati come se si uscisse dalle tenebre alla luce.

Su questo pezzo ho da dire un paio di cose. Innanzitutto, mi faccio due grosse risate sul fatto che lui le dica che viene voglia di sacrificare tutto alla persona amata. Se ci pensate, è ironico che uno che dica così, che dica di amarla, poi sia anche uno che al primo traguardo la molla perché si crede giovane, e chi glielo fa fare di prendersi una tipa che è madre? Grande amore, eh!
Altra cosa, in questo pezzo (di un romantico che non si trova quasi mai nel romanzo) c'è tutto il concetto dell'ideale dell'amore. Per secoli ci hanno inculcato l'idea che il vero amore debba essere così: tutto rose e fiori, e trottolino-amoroso-e-dududù-dadadà, ti guardo e vedo l'universo, mi tocchi e sono sulle stelle, tu mi scrivi poemi in versi ed io ti mostro cos'ho sotto i vestiti. Ed è ancora un ideale largamente condiviso, spacciato per verità indissolubile. Secondo me è solo un modo per controllarci, un modo per farci sentire "sbagliate", delle "poco di buono". Ma tant'è che a molte non gliene frega più niente di 'sti pregiudizi della società.


Due foto, che mi annoia copiare.

Da notare quanto sia simpatica la signora con il suo amato... Mi si può perdonare di non saper fotografare

Alla fine: lei è indebitata fino al collo e anche più, tutti i suoi beni sono pignorati e l'esattore è alle porte, praticamente tutti le negano proroghe e prestiti, va a chiedere aiuto ad un procuratore e, indignata e oltraggiata, rifiuta di vendersi a lui, ma poi torna da Rodolfo (mentre in teoria sta ancora con Leone) e lui, mica cretino, non le crede quando gli dice di amarlo ancora, mentre lei non capisce quanto sia simile la proposta del procuratore con l'offrire se stessa all'ex.
A questo punto, cosa sceglie di fare la poverina? Dire finalmente al marito che sono sul lastrico? GIAMMAI! Si avvelena e sul letto di morte, mentre il signor Bovary si dispera, capisce -sorpresa sorpresa- che l'unico uomo che l'abbia davvero amata è quel disgraziato di suo marito.


Ma non è finita qui! Lei muore e lui quasi impazzisce dal dolore, continuando a dimostrare il suo livello intellettivo: pur essendo pieno di debiti, continua a pensare alle cose che sarebbero piaciute alla moglie, così le organizza un funerale costoso, si compra scarpe e cianfrusaglie costose, vende le sue cose e fa altri debiti. Cioè, lei è morta e sepolta e continua a rovinargli la vita.
D'ora in poi le barzellette sulle mogli che assillano i mariti anche dall'aldilà non mi faranno ridere mai più.

E per dare il colpo di grazia al mio già fragile interesse, Bovary trova la lettera con cui Rodolfo la lasciò e, UDITE UDITE, crede ancora che fossero solo dei cari amici. Passa il tempo, finalmente inizia ad indagare e trova le lettere d'amore sia di Leone che di Rodolfo. Il primo si era appena sposato, il secondo lo va a cercare. Il libro si conclude con una scena penosa: il cornuto e il cornificatore seduti allo stesso tavolo, bevono insieme e lui, dopo alcune riflessioni, confessa di non serbare rancore.
Cioè, non solo non ha capito niente dei tradimenti della moglie, ma lo perdona così, senza nemmeno dargli un pugno in faccia, senza nemmeno sputargli in un occhio o ricoprirlo di parolacce. E poi se ne esce con una frase che esprime al massimo la sua personalità: se sua moglie lo ha tradito, se lei si è avvelenata, la colpa è della fatalità.
No, dico và: LA COLPA E' DELLA FATALITA'.
Boh. Ditemi voi.

Pensavo di trovare un libro che descrivesse la vita di quel tempo in Francia, invece ho trovato... uhm, in effetti non lo so ancora cosa ci ho trovato. Se mi è venuta l'infelice idea di leggere questo romanzo la colpa è della fatalità.
Lascio questa sede con un appello: se capitasse qui qualcuno che ha letto Madame Bovary e che lo ha apprezzato, per favore spiegatemi perché vi è piaciuto. Voglio capire.
Se non ho capito è colpa della fatalità.

sabato 9 febbraio 2013

Avviso per diabetici: post sentimentale.

Ecco, non sono proprio una persona sentimentale, io. Okay, è vero che ho pianto per la morte di zio Keith nel telefilm One Tree Hill, che mi sono commossa come una dodicenne col cuore infranto quando nella puntata finale della quinta stagione di Supernatural Lucifero picchiò Dean mentre quello, ridotto ormai ad una pezza, diceva al suo "fratellino" che non l'avrebbe lasciato, che sarebbe rimasto comunque con lui... Ed è pure vero che ho esultato quando Mr Darcy si fece avanti per la seconda volta con Elisabeth Bennet, ero contenta come se fossero persone reali e li conoscessi. Per non parlare di tutti i drammi che mi ha fatto "vivere" la scrittrice Kathleen E. Woodiwiss.
Però è pure vero che se una persona conoscente/amica tenta di abbracciarmi la mia prima reazione è questa:

Meglio nota come: non mi avrai mai!

La seconda reazione varia da "Okay lo faccio, tanto durerà poco" a "Se ci riprovi, farò in modo che tu non lo possa rifare mai più". A me gli abbracci gratuiti da parte di chiunque non piacciono, fatemi causa.

Tornando al motivo per cui il titolo è quello che è, oggi mi sento sentimentale e siccome mi sento pure senza pudore tié.
Ieri sera parlavo con la mia amica G. che sta a Parma. Parlare con lei mi fa due effetti: mi tira su di morale e mi abbatte il morale. Mi abbatte il morale perché è lontana e ci vediamo bene o male circa due volte l'anno, lei in Emilia-Romagna ed io nella piccola città sicula da cui non riesco, dopotutto, a staccarmi. Ho il mare a due passi e lo adoro; se ho voglia di un panino con le panelle vado a colpo sicuro nel piccolo negozio in centro, dove il ragazzo che ci lavora si ricorda di me e sa che deve metterci solo sale e tanto pepe, senza salse. E non me lo chiede mai come lo voglio, perché lo sa già. Se ho voglia di guidare veloce c'è la strada grande quasi sempre deserta, se ho voglia di guidare piano e non vedermi sorpassare da degli scocciatori strombazzanti c'è l'altra strada sempre vuota.
Egoisticamente, mi solleva il morale perché sa sempre cosa dire per farmi sentire meglio, per ridarmi tranquillità, e lo fa senza rendersene conto, con poco, con la sua candida ingenuità, col suo volermi bene nonostante il mio caratteraccio, nonostante qualche volta mi sfugga di bocca qualche frase poco gentile.
Parlare con lei mi solleva il morale perché mi rendo conto di quanto sia cresciuta in un paio di anni e, anche se sono "più grande" di lei di soli undici mesi, insensatamente mi sento un po' mamma: orgogliosa di quanto sia diventata forte e indipendente e consapevole di potercela fare (che ci posso fare, ho sempre adorato dirle: te l'avevo detto che ce l'avresti fatta, lo sapevo già), fiera di come ha imparato a distinguere le persone di cui fidarsi e quelle da cui diffidare, contenta che abbia comunque conservato quella ingenuità che vedevo in lei quando l'ho conosciuta i primi anni di liceo. Prima la vedevo un po' come una sorellina da proteggere, affinché certa merda che ho vissuto non la raggiungesse e non la cambiasse, e sono stata male per diverso tempo quando una persona a cui voleva bene la deluse perché fu come se l'avessi delusa anche io, come se avessi fallito (me in versione: l'avvocato delle cause perse).
E poi mi dico che ha fatto bene ad andare via, a crearsi una strada tutta sua, perché si merita tutte le cose belle che le sono capitate, anche se lei a volte ne dubita. Quando dubita di se stessa sa che può parlare con me, che tanto credo in lei per due.
Che se fosse qui oggi, sarei io a voler abbracciare lei.

venerdì 1 febbraio 2013

Where are you?

Due giorni fa ho guardato un ragazzo con la barba appena rasata e ho pensato: guarda un po' quant'è carino... E' imperdonabile, lo so. Una come me, che adora un viso maschile barbuto, che adora (forse spinta da un insospettabile istinto masochista) sentirsi pungere dalla barba quando ci si bacia non può, semplicemente non può ammirare uno sbarbatello. Non ho potuto farne a meno come quando mi ubriaco come un (ex-)astemio all'Oktoberfest e mi vien voglia di baciare un tizio semi-sconosciuto... Euhm... Insomma, una breve visita fuori da me stessa.
Scherzi a parte (ma in fondo mica tanto), mi capita sempre più spesso di fare e dire cose che non sono espressione di ciò che sono. Mi spiego meglio: ad esempio, non ho mai avuto interesse a giocare a fare Dio, nè tantomeno a fare Cupido. Eppure l'ho fatto, ho fatto entrambe le cose e le ho fatte così d'istinto che me ne sono accorta quando ormai era troppo tardi per ritrattare.
Ho giocato a fare Dio quando in modo subdolo ho (in pratica) torturato un amico alle spalle di una amica che non aveva capito niente. E ho giocato a fare Cupido due sere fa, tirando troppo la corda per spingere due a fare un passo che evidentemente non sono ancora pronti a compiere. Nel secondo caso era più o meno a fin di bene e ci sono pure riuscita, anche se non completamente.
Io non sono così, e non so perché mi ritrovo a fare certe cose che credevo non mi appartenessero, che ho addirittura criticato in altre persone.


 Ci sono cose che neanche un bel cagnolino o una bottiglia di vino possono risolvere.
Non mi sento più me stessa, mi sono persa. E' da oltre un anno che non riesco più a scrivere storie, e dire che prima non riuscivo a dormire la notte perché vivevo di storie. E' da un paio di settimane che rifiuto persino l'idea di mettermi a leggere, e non sono sicura che la colpa sia tutta da attribuire all'odioso libro che sto leggendo. Nemmeno l'idea di rileggere per la milionesima volta un romanzo che amo mi fa tornare voglia di leggere.
Mi sento in gabbia, come quando mi trovavo in un posto e ho visto questo:

  

Quella che dovrebbe essere l'uscita di sicurezza a prova di panico è chiusa da un catenaccio. Poco male, se conosci la struttura perché, mentre qualcuno andrebbe a cercare la chiave, c'è chi sa dove si trova la porta che si apre su una vera uscita, ossia accanto a questa. Capisco perché la mia amica lesse il cartello "MANIGLIONE ANTIPATICO"